Fausto Bertinotti:"...il progetto della sinistra deve ricominciare da una grande organizzazione di massa, perché l’esperienza ci insegna che siamo più democratici quanti più e uniti siamo".
Bertinotti: «Una nuova organizzazione politica cooperativa della sinistra»
Fausto Bertinotti è pimpante. Si sente “in una condizione di grande serenità”. L’ex presidente della camera benefica infatti della “condizione privilegiata” di essere “al di sopra delle parti” mai quiete della sinistra. Il che gli consente di organizzare e svolgere “con soddisfazione” le proprie attività di direzione della rivista Alternative per il socialismo, di libera docenza all’università di Perugia e, in definitiva, di libero pensatore. Lo incontriamo nel suo studio di presidente della Fondazione camera dei deputati per una conversazione a partire dal libro di Paolo Ferrero, Quel che il futuro dirà di noi. Idee per uscire da capitalismo in crisi e dalla seconda Repubblica (DeriveApprodi, pp. 156, € 12).
Nel suo libro, Ferrero muove dalla tesi che la sinistra Italia “più che sconfitta, sia dissolta” per non aver “ripensato criticamente nulla” e aver invece “buttato via tutto”. Fino a introiettare direttamente il punto di vista dell’avversario, attraverso il lungo corso iniziato dalla fine degli anni Sessanta e contrassegnato da sconfitte e arretramenti in successione, che ha provocato lo smarrimento di un punto di vista autonomo. Consideri anche tu basilare questa premessa?
Questo di Paolo è sostanzialmente il giudizio che siamo venuti dando negli anni Novanta, e inizio Duemila, più o meno da parte di tutte le forze della sinistra radicale in Europa. Potremmo dire che la nascita del partito della Sinistra europea si realizza sulla base di questo giudizio sul centrosinistra nelle diverse formule che assume nell’Europa di fine secolo: dal New labour in Inghilterra alla socialdemocrazia di Schröder in Germania, fino alle esperienze più interessanti, come quella socialista di Jospin in Francia e, in posizione quasi intermedia, quella di Prodi in Italia. Da questo punto di vista trova conferma un’analisi condivisa. Ciò detto, secondo me la genesi del centrosinistra è determinata dalla combinazione di due differenti fattori, che non attengono nemmeno più il rapporto con la socialdemocrazia.
E cioè quali?
Il primo elemento è il crollo dei regimi dell’est, e non il loro incombere. E’ il crollo dei regimi dell’est ad esser interpretato colpevolmente come fine della storia; determinando così una causazione più che subalterna, organica, del centrosinistra alla modernizzazione capitalistica. Il secondo elemento è che tale genesi del centrosinistra è interna alla fase ascendente del capitalismo fordista taylorista keynesiano. In questo senso è un tentativo ambizioso, disastroso ma anche ambizioso: perché si candida a essere la forza più adatta in Europa a liberare la modernizzazione e più vocata a dare all’umanità una nuova stagione di benessere. Sotto questo aspetto il centrosinistra è una formula e una formazione che sta fuori dalla storia culturale, anche se non fattuale, del movimento operaio. E come tale va indagato. Ci dice, cioè, di più quel che il centrosinistra europeo è stato come nuova fondazione di una cultura politica piuttosto di quel che non è più stato come erede del movimento operaio. E questa chiave secondo me consente di capire perché, nel momento in cui va in crisi il capitalismo finanziario globalizzato, la sinistra europea si trova a essere ammutolita anziché a riprendere la parola. Perché la crisi manda in tilt l’unico impianto culturale che la sinistra aveva costruito, e precisamente quello della globalizzazione.
Proprio nella crisi oggi assistiamo a una paradossale rincorsa dei governi a coprire debiti e malversazioni di banche, imprese, fondi e finanziarie, secondo una sorta di neo statalismo che dovrebbe risultare un’eresia agli apologeti del mercato, ma attraverso cui il conto viene scaricato tutto sui lavoratori. Non credi che un rimosso fondamentale, che invece occorre tornare a porre in termini attuali, riguardi proprio i modi di produzione, ovvero il tema della proprietà?
Questo è un problema particolarmente complicato in Italia. Perché l’Italia è forse il paese europeo in cui si sono maggiormente affermati un ruolo dell’intervento pubblico nell’economia e un modello di economia mista. E questo perché potevano poggiare su una straordinaria innovazione culturale, che quella iscritta nella Costituzione repubblicana. In Italia, quindi, un importante compromesso dinamico tra le principali forze costituenti – socialisti, comunisti, democratico cristiani – ha fatto sì che l’intervento pubblico fosse il modo attraverso cui veniva affrontata la questione della proprietà. E, con questo, punto e fine. Perché punto? Perché questa storia secondo me è finita. Sono tutt’altro che propenso a rinunciare al lascito di quella storia, ma per poterlo recuperare bisogna sapere che è finita, che l’economia mista è stata abbattuta. E che si è andati verso un capitalismo moderno che, come Reagan, considera lo stato il problema invece che la soluzione e che, come la Tatcher, ritiene che non esista la società civile ma solo l’economia.
Una trasformazione della Costituzione materiale che di fatto ha travolto quella formale?
E’ stato desertificato il terreno su cui poteva agire lo scritto sulla Carta. Perciò la soluzione contenuta nell’intesa costituente progressiva non può più realizzarsi. Tanto è vero che tu hai oggi il caso più clamoroso di contraddizione tra impresa e interesse sociale, per cui in nome del puro interesse finanziario di pochi puoi determinare una delocalizzazione e cancellare un’intera storia che non è solo lavorativa e produttiva. La grande idea costituente è stata così sbarrata dalla controriforma liberista. Perciò credo sia giusto rimettere al centro una riflessione sulla questione della proprietà e che dovremmo ricominciarla a partire dal lavoro e dall’autogestione.
Nel 1996 prima e nel 2006 poi Rifondazione entra in uno schieramento sulla base dell’idea di poter piegare a sinistra l’asse della politica del centrosinistra. Retrospettivamente, non credi che, nel secondo caso più che nel primo, siano stati fatti errori di valutazione rispetto alla sinistra moderata e alla reale possibilità di intervento?
Al riguardo mi sono formato un’opinione precisa, che ovviamente può essere contraddetta, ma lungamente elaborata. L’interrogativo, a mio avviso, non può essere posto solo in questi termini. Perché Rifondazione incontra due volte, sulla stessa direttrice, il tema del governo del centrosinistra. Quindi bisogna avere il coraggio di mettere in discussione l’intero ciclo, che chiamerei del secondo centrosinistra rispetto al primo degli anni Sessanta.
Ferrero ci si mette dentro e con l’assunzione piena di responsabilità rispetto al secondo governo Prodi, riconoscendo di aver “sbagliato” giudizio e atti conseguenti…
Con tutto il rispetto per ogni percorso di elaborazione, porre la questione in questi termini secondo me è irrilevante. Appunto perché penso si debba riflettere sull’intero ciclo e le due fasi, a dieci anni l’una dall’altra, 1996-1998 e 2006-2008, in cui si ripropone un’esperienza di governo del centrosinistra. In quest’ottica, credo che Rifondazione non avesse altre opzioni dal punto di vista delle alleanze di governo. Aveva a disposizione mille altre ipotesi, compresa quella del possibile autoscioglimento per rafforzare il protagonismo dei movimenti dentro una soggettività politica completamente nuova. Ma, secondo me, non disponeva della possibilità di non porsi il tema del governo.
Ciò in base a quale ordine di considerazioni, visto che si è poi trattato della questione più discussa, controversa e lacerante?
Perché, sul terreno della partecipazione alle sorti della democrazia rappresentativa, si rendeva impossibile l’autonomia strategica di una sinistra radicale dal contesto politico. Questo perché nella seconda repubblica stava producendosi un rovesciamento vero e proprio del ciclo storico democratico, che muoveva dalla fase di allargamento della democrazia, attraverso lo stadio intermedio degli anni Ottanta, a una progressiva compressione verso la democrazia oligarchica. Penso che in questo quadro – che per altro si configurava all’indomani delle due gigantesche sconfitte dei 35 giorni e sulla scala mobile e dello scioglimento del Pci – non ci si potesse sottrarre alla domanda relativa a come impedire la vittoria della destra, connotate per altro dal berlusconismo. Tanto è vero che la prima volta noi scegliamo la via acrobatica della desistenza. E la seconda, memori che il primo centrosinistra di Prodi era fallito drammaticamente, proviamo a metterci al riparo con un’opzione programmatica che sono tutt’ora convinto di poter difendere in qualunque discussione pubblica nei confronti di chiunque. Dov’è dunque l’errore? Secondo me non è nel giudizio sulla componente moderata, ma su di noi. Abbiamo sbagliato l’analisi del rapporto tra Rifondazione, la sinistra, i movimenti, il popolo, il paese. Abbiamo cioè sopravvalutato la capacità di favorire la permeabilità delle istituzioni e del governo rispetto ai movimenti. E questo mi porta a un giudizio complessivo sul centrosinistra, non sulla singola esperienza del Prodi 1 o 2.
Quale giudizio, in definitiva?
L’idea che il centrosinistra in Italia è comunque un’alleanza che configura una possibile forza di modernizzazione, ma non una forza riformatrice. A significarlo c’è una caratteristica comune ai due grandi cicli del centrosinistra, quello degli anni Sessanta e quest’ultimo: cioè il fatto che le cose migliori le ottieni, tanto allora che oggi, quando le forze di sinistra non sono materialmente dentro il governo.
Tanto è vero che Ferrero rimprovera come, anche nella fase più dura, abbia invece prevalso la scelta di rimanere anziché rompere, considerandola un errore. In quanto, se non sei in grado di realizzare percepibili, seppur parziali, passi in avanti, finisci per massacrarti e subire il contraccolpo a opera di coloro per cui sei andato al governo, ma di cui non riesci a mutare la condizione. Non si tratta, poi, di quel che è accaduto al Prc?
Rispetto a questo punto il mio dissenso è molto profondo. Perché la conseguenza di questo ragionamento è: salviamo una scialuppa. Mentre la conseguenza del mio ragionamento è: rimettiamo in discussione l’intero campo della sinistra. Se la mia analisi è giusta, infatti, non c’è salvezza in una ridotta: perché quel che conta è quello che pensano e come si comportano le grandi masse.
Ma se diluisci fino a rendere invisibile l’identità della tua proposta politica, quindi della tua efficacia, a quel punto non produci la dissoluzione della sinistra?
E quando sarebbe avvenuta questa evaporazione del carattere qualificante della tua proposta?
Nel governo.
Ora, davvero si può credere che questa catastrofe che ha cancellato la sinistra dal paese sia determinata in due anni e dalla presenza di una piccola forza in un governo? Come si fa a non vedere che la rovina comincia negli anni Sessanta, con la mancata intercettazione della nascita del conflitto operaio, col silenzio rispetto alla primavera di Praga strangolata, con l’incapacità di intercettare la domanda radicale di cambiamento culturale e di costume del ’68-’69, con l’incapacità di mettersi in relazione con tutti i movimenti e le loro specificità?
Questo è il panorama di fondo da cui muove anche la riflessione di Ferrero. Nello specifico, però, rispetto alla questione del governo e dei sui effetti, qual è in definitiva il tuo giudizio sulle divergenze intervenute a sinistra?
Simul stabant, simula cadent. O ci salvavamo insieme o morivamo insieme. E infatti stiamo morendo insieme.
E, rispetto a questa situazione, come valuti la posizione del sindacato e della Cgil?
Il sindacato è parte integrante della crisi della sinistra in Europa e in Italia. Non penso che la subisca, ma che ne sia corresponsabile.
Riassumo i due nodi che invece andrebbero presi in esame per una riflessione approfondita. Primo: il mutamento della composizione sociale del lavoro, che ripropone il tema dell’unificazione del mondo del lavoro, affrontato in maniera inadeguata; il che già spiega in parte le difficoltà del sindacato. Secondo: la devastazione di cultura dell’autonomia del conflitto e del sindacato dal quadro politico e dal processo di modernizzazione prodotta dalla crisi della sinistra politica.
Date queste due difficoltà, il problema del sindacato riguarda l’avervi fatto fronte su una via sbagliata: quella della crescente istituzionalizzazione. Il sindacato ha pensato, cioè, di poter supplire alla difficoltà di rappresentare compiutamente il mondo del lavoro e di dare ad esso un potere contrattuale attraverso la propria progressiva cooptazione dentro un sistema economico, sociale e di partnership col governo. Un corso che comincia con gli accordi del ’92 e ’93. E della cui crisi è levatrice la concertazione.
Vince, insomma, la linea di Bonanni e della Cisl?
La Cisl ha dato una risposta da cui dissento totalmente, ma forte e organica. Ed è l’idea secondo cui non c’è più niente da fare dal punto di vista dell’autonomia del sindacato come agente contrattuale della coalizione lavorativa. E che, in assenza di ciò, il sindacato debba diventare soggetto di cogestione istituzionale di elementi di tutela e di accompagnamento della vita dei lavoratori fuori dal conflitto capitale-lavoro. Rispetto a questo, secondo me, il congresso della Cgil ha il grande demerito di non aver messo in luce esplicitamente il bivio storico in cui essa si trova.
Un bivio tra quali due opzioni?
Sostanzialmente tra quella di rientrare nei ranghi, come mi pare il congresso tenda a fare, e quella di imboccare la via difficilissima, pure indicata al congresso, della riaffermazione dell’autonomia del sindacato e della costruzione della coalizione lavorativa unitaria. Fondata su un punto a mio avviso fondamentale non solo per il sindacato, ma per la sinistra e per la politica: cioè la democrazia. La democrazia, infatti, è il vero spartiacque odierno. Ho sostenuto lungamente che lo spartiacque tra destra e sinistra fosse l’eguaglianza; e lo dico ancora. Ma c’è una precondizione che oggi diventa una priorità politica, che è appunto la democrazia.
Oggi, però, anche nei grandi involucri della rappresentanza e istituti della democrazia si vano sempre più affermando forme di leaderismo, di affidamento della delega alla fascinazione di un capo carismatico. Pensi che a sinistra dobbiamo adeguarci a questa politica, molto semplificata, fondata sull’affido?
Penso che questa discussione sulla leadership a sinistra sia veramente bizzarra. Sorvoliamo sul culto della personalità e Stalin. Ma, anche dopo la critica del culto della personalità, vorrei ricordare che in Italia milioni di persone hanno gridato a ogni occasione: “Gramsci, Togliatti, Longo e Berlinguer!”…
”Viva Marx! viva Lenin! Viva Mao Tse Tung!”.
Bè, se non sono leader questi... C’è una doppiezza nella sinistra italiana secondo cui facciamo a meno dei leader quando non li abbiamo. Ma, quando li abbiamo, li utilizziamo a mani basse anche da morti: da Gramsci a Togliatti a Longo a Berlinguer. E Berlinguer, effettivamente, ha giocato un ruolo legato al carattere della propria personalità, incarnando a fondo l’austerità e il rigore morale. Sulla scena internazionale, poi, non ho mai sentito nessuno levarsi a dire che non si dovesse parlare di Fidel Castro oppure che obiettasse alla maglietta del Che, in quanto sarebbe stato meglio parlare dei compagni anonimi della guerriglia.
Se poi vogliamo parlare più seriamente, guardiamo all’America latina, che attualmente è l’area del mondo davvero in controtendenza rispetto alla crisi della democrazia e del nesso democrazia-sviluppo che si è spezzato da entrambi i lati: lo scacco progressivo che subisce la democrazia nella tradizione europea e l’affermazione del sistema autoritario cinese come motore dell’area di maggiore sviluppo del mondo. Rispetto a questa crisi planetaria della democrazia, l’America latina vive un’esperienza che stabilisce una relazione difficilissima ma virtuosa tra critica alla globalizzazione, critica pratica alla modernizzazione e costruzione di esperienze di democrazia. Ora, però, non mi si verrà a dire che l’esperienza brasiliana non ha a che fare con il carisma di Lula. Non parliamo poi dell’esperienza venezuelane di Chavez. Né si vorrà dire che gli indigeni non abbiano in Morales il punto di riferimento. Questo, giusto per essere avvertiti del fatto che forse bisogna rimeditare il peso della personalità nella politica, e che la questione della leadership è un po’ più complessa di come viene ridotta.
In Italia, però, intanto c’è Berlusconi…
Rispetto all’Italia, io ho un’idea specifica anche se può sembrare eccentrica: penso che la questione del progetto politico e quella della rappresentanza oggi debbano essere pensate con una relativa autonomia reciproca.
Penso che il progetto della sinistra debba ricominciare da una densa costruzione democratica: perciò da una grande organizzazione di massa, perché l’esperienza ci insegna che siamo più democratici quanti più e uniti siamo. In questa costruzione democratica, la critica al leaderismo è fondamentale, nella misura in cui mette in discussione la delega. La leadership carismatica e mediatica è inutile e dannosa alla costruzione di un intellettuale collettivo che può nascere solo sulla base di processi partecipativi e attraverso la costruzione di un nuovo ordinamento democratico, orizzontale, plurale, il più possibile attraversato dalla critica del femminismo alle forme delegate.
Le elezioni, invece, non vorrei dire, come Sartre, che siano anche una manifestazione seriale, ma invece è proprio così. Quindi, rebus sic stantibus, se si decide di competere alle elezioni sul terreno della rappresentanza, io penso che sia buono anche avere un leader in grado di incarnare una connessione sentimentale col proprio popolo. Riassumendo: leader carismatico per le elezioni, democrazia partecipata per il soggetto politico. Ma il mio ragionamento è volto soprattutto a separare questi due momenti. La mia idea è che quando ti vai a presentare la lista non la decidi tu…
E neanche il corpo degli iscritti, dunque…
Assolutamente no. La lista la decide la consultazione popolare. Il partito, invece, lo decidi tu insieme a chi condivide quell’opzione politico organizzativa, a chi è partecipe di quell’intellettuale collettivo.
Su questo piano, Ferrero rileva che oggi non c’è una sola sinistra, ma sono più di una. E in quest’ottica propone la Federazione anche come territorio di ricostruzione unitaria a partire da forze che si costituiscono come polo alternativo rispetto al Pd, su cui si esprime un giudizio di non ritorno, in quanto organicamente subalterno al potere dominante. Cosa pensi di questa formula?
Sono molto distante. Me l’avessi chiesto l’altro ieri avrei detto no per ragioni politiche. Il punto nuovo della mia critica a quell’impostazione è che, non solo ritengo l’elemento identitario costituito dai partiti comunisti una cattiva base di partenza, in quanto esclude energie che considero non secondarie e anche più interessanti, ma oggi penso che non si possa ricominciare da nessuno dei partiti esistenti né da nuovi partiti costituendi.
E da cosa bisogna partire, allora?
Dalla part destruens: dalla messa in discussione di tutte le organizzazioni partitiche esistenti, per costruire una nuova organizzazione politica della sinistra. Il nuovo modo di fare la politica è la premessa di una nuova politica della sinistra. Penso infatti che i partiti tutti, che sono stati fino ieri contenitori di processi emencipativi, siano oggi elementi di resistenza alla ricostruzione della sinistra. E che si debba adottare la tesi che Daniel Cohen-Béndit ha adottato come parola d’ordine di un terreno differente e specifico, com’è quello dell’ecologismo: cioè la costruzione di cooperativa politica.