Il neoliberismo ... all'italiana!?
Estratto da: La comunità ritrovata. Civitavecchia: la politica difficile, a
cura di
Patrizio Paolinelli, Teseo Editore, Roma, 2008.
Tu vuo fa l’americano
Patrizio Paolinelli
Prerequisiti del berlusconismo
Politica-spettacolo, populismo, telecrazia. Ecco tre modelli di interpretazione critica del berlusconismo. In effetti la rapidità di produzione-trasmissione della cultura post-moderna ci ha abituati a dare senso e significato all’attualità quasi in tempo reale. E oggi possiamo dire che del berlusconismo conosciamo bene le sue principali caratteristiche. La parabola del Cavaliere è stata studiata in Italia e all’estero con molto interesse per le numerose novità che ha introdotto nel modo di fare e di intendere la politica. Ciò non toglie che la conoscenza abbia faticato e stia ancora faticando parecchio per contribuire a tenere a bada un fenomeno potenzialmente degenerativo per la democrazia. Infatti: la politica-spettacolo svilisce il concetto a favore dell’immagine; il populismo sfocia spesso in autoritarismo plebiscitario; la telecrazia sostituisce la partecipazione attiva della cittadinanza con l’inclusione passiva del pubblico. In tutti questi casi il linguaggio della politica si rovescia tout-court nelle pratiche del potere postmoderno. Un potere che aggiorna vecchie forme di sudditanza e genera nuove costrizioni sociali attraverso il partito-azienda.
Il berlusconismo costituisce una modalità di legittimazione del potere fondata sulla personalizzazione del rapporto leader-popolo tramite la mediazione televisiva. Va tuttavia precisato che tale modalità non nasce per moto proprio. La stella del Cavaliere non avrebbe brillato così intensamente e così a lungo senza il concorso di diversi fattori esogeni. Ne elenchiamo alcuni: 1) la rivoluzione restauratrice portata avanti dal neoliberismo dalla fine degli anni ’70 ad oggi; 2) il crollo del socialismo reale; 3) la perdita di centralità della grande industria; 4) la conseguente nascita di un’economia fondata sui servizi e la conoscenza; 5) l’ascesa della figura dell’imprenditore nell’immaginario collettivo; 6) il declino storico dei partiti di massa; 7) il ritorno in grande stile del populismo; 8) l’avvento della neotelevisione (zapping, numerosità canali, canali tematici ecc.).
Berlusconi ha saputo approfittare prima di altri moderati di parecchie circostanze favorevoli che gli hanno permesso di trasformare radicalmente una società in transizione che chiedeva a gran voce il cambiamento. Da buon populista ha offerto agli italiani una via d’uscita per il malcontento nei confronti del sistema dei partiti, della deindustrializzazione, della disoccupazione. Insomma ha venduto un sogno: uscire dalla Prima Repubblica, realizzare il “miracolo economico”, liberare il paese dalle scorie del passato e prospettargli un futuro. Tutte buone intenzioni politicamente riassunte nel celebre “contratto
con gli italiani”. Formula magica copiata pari pari dai neoconservatori statunitensi e che segna la definitiva rottura semantica con il tradizionale linguaggio della politica italiana.
Sul piano delle relazioni tra sistema politico e sistema economico il berlusconismo attecchisce e vince in virtù di tre fattori interagenti: la frantumazione delle classi provocata dall’avvento del modo di produzione postfordista; l’aumento della complessità sociale in un mondo del lavoro che vede crescere costantemente il numero delle professioni e delle specializzazioni; la colonizzazione della vita quotidiana da parte dei mezzi di comunicazione di massa. L’interazione di tali fattori suggerisce che il berlusconismo vada ben oltre la persona di Berlusconi esattamente come il nazismo e il fascismo non si esauriscono nelle figure di Hitler e Mussolini. E qui occorre una precisazione.
Il paragone con le dittature degli anni ’30 del secolo scorso è quasi istintivo per molti osservatori del berlusconismo. Noi compresi. Ci siamo spesso interrogati su questo collegamento spontaneo. E’ forse dovuto alla nostra scarsa simpatia verso il personaggio? No. Se così fosse avremmo smarrito il necessario distacco che si deve all’oggetto di osservazione per quanto poco possa piacerci.
Non resta allora che osservare Berlusconi in quanto attore sociale, tentando di comprendere il suo punto di vista e il suo agire secondo la lezione di Weber. E cosa vediamo osservando da vicino questo fondatore di una nuova lingua politica? Vediamo un individuo che non ama la discussione, non ama essere contraddetto, non ama perdere e per questo non ammette mai la sconfitta anche quando è palese. Allo stesso tempo Berlusconi piace perché è uno che va per le spicce. Piace perché ragiona per stereotipi. Piace perché offre alle masse televisive mete a buon mercato. Piace perché si presenta come un capo-branco. Piace perché ragiona in termini assai semplificati di amico-nemico: o con me o contro di me. Tutti ingredienti che non ne fanno un liberale nel senso classico del termine. Si potrebbe dire che ne fanno un post-liberale. Meglio ancora: un alfiere dell’antipolitica.
L’altro passo che avvicina il Cavaliere alla figura del dittatore consiste nel privilegiare il culto della visibilità. Un culto che si traduce nella sua ossessiva presenza mediatica realizzata sia in prima persona sia dai dipendenti delle sue reti televisive. Il culto della visibilità ha questo di specifico: tradisce il desiderio e la volontà di non cedere mai il potere mediatico utilizzando tutti i mezzi, leciti e illeciti. Precisiamo subito che gli illeciti di Berlusconi riguardano il suo linguaggio. Ossia: portare alle estreme conseguenze i difetti della politica italiana. E per estreme conseguenze si deve intendere principalmente, anche se non esclusivamente, portare sullo schermo televisivo un’immagine. Si pensi solamente al Berlusconi vittima perseguitata dalla diabolica magistratura milanese.
Bastano questi pochi elementi per giustificare il paragone tra Berlusconi e Mussolini. Paragone che intende semplicemente segnalare una tendenza. Perché a differenza di Mussolini, Berlusconi è un dittatore virtuale senza dittatura reale. Le circostanze storiche gli impediscono di realizzarla, posto che l’idea gli abbia mai sfiorato la mente. La dittatura virtuale non richiede la sospensione della democrazia (libertà di stampa, di associazione, pluralismo politico ecc.) ma la sua dequalificazione. Richiede insomma un’idea aziendale della politica, della cultura, della vita della nazione. La consistenza di questa ipotesi possiamo misurarla passando da Berlusconi al berlusconismo. Un concetto che da solo non è tuttavia sufficiente per comprendere come mai un imprenditore in crisi economica sia riuscito a tenere sotto scacco un’intera nazione dal 1994 ad oggi inventando dal nulla un partito e facendo dell’antipolitica un linguaggio di governo. Occorre allora affiancargli un’altra nozione. E questa nozione è l’americanismo.
Il volo dell’anatra zoppa
L’americanismo rappresenta tante cose intrecciate tra loro: è spirito di frontiera, società plurale, potenza militare, fascino culturale, mitologia dei consumi, progresso scientifico, sguardo rivolto al futuro, spettacolarizzazione della vita. Per sua stessa ammissione Berlusconi ama, a prescindere da qualsiasi considerazione, tutto ciò che proviene da oltreoceano.
Coerentemente, sul piano della gestione della cosa pubblica, il Berlusconi premier è un buon interprete della rivoluzione neoconservatrice affermatasi da Reagan in poi. Ma l’Italia non è gli USA e l’azione di governo del Cavaliere deve fare i conti con diverse criticità ereditate dalla storia del nostro Paese: proliferazione di partiti, alleanze di governo dalla forte conflittualità interna, il ruolo giocato dalla Chiesa cattolica nella realtà italiana, la tradizione clientelare nella gestione del potere, la forte presenza dei sindacati, una sinistra ancora consistente nonostante l’implosione dell’URSS e dei suoi satelliti. Per comprendere quanto l’americanizzazione dell’Italia sia un processo lungo e tortuoso a questi fattori, che per così dire provengono da quello che ormai appare un lontano passato, si aggiungano eventi più recenti quali l’avvento di un robusto movimento di contestazione della globalizzazione neoliberista e il crescente attivismo dei corpi intermedi nel tessuto sociale.
Il Berlusconi politico è dunque un’anatra zoppa che non può applicare come vorrebbe tutto il suo americanismo. Una disposizione che nella realtà politica degli states si traduce nel bipolarismo perfetto. Bipolarismo reso ancora più stabile dalla comune e indiscussa fede all’ideologia del mercato dei due partiti che si alternano alla guida del Paese. En passant annotiamo che tanta compattezza fa dire a Gore Vidal che il sistema politico statunitense è formato da due destre e che de facto non esiste una vera alternanza di governo.
Volendo calcare la mano si può osservare che persino quando appare una terza forza di destra come quella che fece capolino con il populista miliardario Ross Perrot (19% nelle elezioni presidenziali del 1992 e 8% in quelle del ’96) l’establishment politico statunitense riesce in qualche modo a neutralizzarla.
In ogni caso, l’osservazione di Vidal pare assai utile sia per non cadere nella trappola dei cosiddetti partiti post-ideologici, sia perché ci permette di tornare alla nostra anatra zoppa. Una volta “sceso in campo” l’uomo di Arcore emula Ronald Reagan: attacco frontale allo Stato sociale e ai diritti dei lavoratori, smantellamento sostanziale di alcuni principi costituzionali legati ad una visione solidaristica del ruolo dello Stato, lotta senza quartiere contro sindacati e sinistra, richiamo diretto al popolo saltando a piè pari tutte le mediazioni istituzionali. In questa strategia pienamente neoliberista rientra anche lo sdoganamento della destra di ascendenza fascista. La quale, tra molte incertezze, abiura parte del suo passato in camicia nera per rendersi presentabile ai moderati europei e di oltrealtlantico. L’operazione riesce e più di un commentatore nota che molte scelte politiche di Berlusconi sono in sintonia con il programma della P2 di Licio Gelli.
Tralasciando questo aspetto oscuro, nei cieli della politica italiana Berlusconi è forse il premier meno europeista e meno europeo che il nostro Paese abbia avuto dal Secondo dopoguerra in poi. Ma se si può essere incerti su questi primati, sicuramente il Cavaliere è stato l’alfiere di una nuova fase di americanizzazione della politica italiana. E’ il primo a introdurre il marketing elettorale. E’ il primo ad utilizzare con estrema disinvoltura i mass-media per orientare il voto. Entrambe le azioni sono affermate nel panorama politico statunitense già dall’era dei fratelli Kennedy. In Italia arrivano ai primi degli anni ’90 grazie al Cavaliere. E in questo senso Berlusconi è un grande innovatore. Tuttavia, tale innovazione non va verso un ampliamento della democrazia. Per Berlusconi i partiti costituiscono un ingombro, i corpi intermedi della società un ostacolo, il popolo una platea televisiva da imbonire con messaggi semplici e manichei. Nella sua visione dell’azienda-paese la democrazia è un impedimento al decisionismo del capitano d’impresa.
Per affermarsi politicamente l’anatra zoppa fa più fatica del previsto: è costretto a patteggiare con il senso dello Stato di Alleanza Nazionale, deve fare i conti con l’ostilità di larghi settori della società, subisce ripetute sconfitte elettorali. Evidentemente le tecniche made in USA di manipolazione dell’opinione pubblica non garantiscono sempre il successo. Ma c’è un secondo livello di competizione grazie al quale l’anatra zoppa spicca il volo aprendo come un nuovo Icaro inedite rotte per l’esercizio del potere: dove l’americanismo non riesce a passare tramite l’azione di governo dilaga come stile di vita. Dilaga insomma nella sfera della riproduzione sociale senza incontrare alcuna resistenza.
Le Tv commerciali nate e prosperate sotto il segno del berlusconismo sono le grandi promotrici di un nuovo modo d’essere e di vivere che senza parlare direttamente di politica fanno molta più politica dei partiti. Soprattutto nella prima fase di ingresso sul mercato televisivo gran parte della programmazione di Mediaset è di provenienza americana (Dallas, Magnum P.I., General Hospital ecc.). Anche successivamente il modello resta Hollywood. Soap opera, sit-com, telequiz, giochi a premi, donne nude, calcio in diretta, talk-show e milioni di ore di pubblicità determinano una vera e propria rivoluzione culturale portatrice di un modello di vita forse più californiano che americano: etica del successo, morale del divertimento, culto del corpo.
L’adesione della Rai alla linea editoriale di Mediaset costituisce un evento cruciale per la formazione della coscienza collettiva degli italiani. Un evento negativo. Si tratta di una vera e propria Caporetto culturale che non si riduce affatto al costume. Meglio: ciò che troppo spesso e con sufficienza è chiamato costume costituisce parte integrante e decisiva nella formazione della coscienza. Codici e contenuti della TV commerciale hanno offerto a un paio di generazioni di italiani ideali condivisi, modelli di comportamento, usi del tempo libero. Hanno motivato l’azione sociale tramite l’ideologia del consumo mobilitando masse umane sotto forma di pubblico e depotenziando giorno dopo giorno la capacità di attrazione delle idee di cambiamento sociale alternative alle logiche aziendaliste. In poche parole: hanno creato un sistema di valori politicamente funzionale al neoliberismo.
Famiglia particolarista
In Italia il berlusconismo è la locomotiva della cultura di massa. Per milioni di giovani e meno giovani valori e senso della vita trovano la propria ragion d’essere nei programmi della Tv commerciale. Questo fenomeno è noto tra gli esperti di comunicazione come “effetto dei media“. Esistono diverse tesi in proposito. Una sostiene che i mass-media non generano i comportamenti delle persone. Si limitano a trasmettere quel che è autonomamente prodotto dalla società, ovvero si collocano in un contesto culturale preesistente. Nelle sue conseguenze politiche questa presa di posizione è conservatrice e tende a velare il potere dei media adeguandosi al detto: la Tv dà al pubblico ciò che il pubblico chiede. Niente di più falso ovviamente perché la comunicazione tra Tv e spettatori è unidirezionale. Perciò la “cabina di regia” sta dalla parte dei produttori di contenuti televisivi. I quali impongono un’agenda, una lettura del mondo e persino un’estetica aderente alle logiche politico-economiche dominanti. Qualsiasi siano le tendenze di tali logiche la Tv, e i mass-media in generale, si presentano come strumenti di potere. Allo stato attuale il governo dei palinsesti non è il risultato di un processo democratico. Gli utenti sono destinatari delle trasmissioni e non protagonisti. Sono, appunto, spettatori. Come se non bastasse a questi spettatori è narrata una realtà selezionata e preconfezionata che esclude temi decisivi nella vita individuale e collettiva come ad esempio il lavoro. In questo senso la Tv si configura come “un’arma di
distrazione di massa”. Efficace formula che purtroppo riguarda anche l’informazione.
Per quando sospettabile di connivenza con il potere, la tesi secondo cui la Tv riproduce la struttura preesistente delle relazioni sociali non è da cestinare del tutto. Nel caso italiano il berlusconismo ha davvero fatto leva su alcuni portati antropologici tipici della nostra società. Primo fra tutti l’individualismo. Un individualismo specifico, molto differente da quello anglosassone e in continuità con il “familismo amorale”. Con questa categoria è stata descritta una tendenza della cultura meridionale italiana nel secondo dopoguerra in virtù della quale gli individui cercano di massimizzare solamente i vantaggi materiali e immediati del proprio nucleo familiare supponendo che tutti gli altri si comportino allo stesso modo. Il familismo è "amorale" perché i principi di bene e di male sono applicati soltanto nei rapporti familiari. L'amoralità non riguarda i comportamenti interni alla famiglia, ma l'assenza di ethos comunitario esterno della famiglia.
Senza entrare nel merito della lunga discussione sociologica intorno a questa categoria l’idea di familismo si è estesa nel tempo per spiegare vari fenomeni della nostra società: lo scarso spirito civico, la prolungata convivenza dei giovani italiani con i genitori, lo sviluppo della piccola e media impresa.
Contrariamente a quanto alcuni studiosi si aspettavano il familismo amorale non ha impedito la modernizzazione. Al contrario, si è adattato a innovazioni e trasformazioni sviluppando uno specifico particolarismo capace di rispondere ai mutamenti sociali. Esempi: la famiglia è passata dall’etica del risparmio a quella del consumo, costituisce un’occasione di lavoro in relazione allo sviluppo della piccola e media impresa, è un potente ammortizzatore sociale che supplisce agli enormi deficit del welfare italiano. Senza il sostegno della famiglia oggi milioni di persone verserebbero nell’indigenza e il sistema di potere che regge il nostro Paese sarebbe probabilmente saltato da lungo tempo.
E’ proprio sull’idea della “famiglia particolarista” che si fonda uno dei pilastri del berlusconismo. Si può affermare che gran parte dell’attività del Cavaliere imprenditore e del Cavaliere uomo politico è destinata alla famiglia. Le sue reti televisive sono costruite intorno a target precisi raccolti intorno alle mura domestiche: Italia 1 per i giovani, Rete 4 per casalinghe e pensionati, Canale 5 proprio per le famiglie. Ma con il berlusconismo è la televisione in quanto mezzo a mutare funzione. Non è più solo un elettrodomestico. E’ anche un neo-oggetto chiamato appunto neotelevisione e caratterizzato dal flusso continuo di trasmissioni. Oggi i telespettatori non guardano un programma: si immergono e nuotano in un fiume di immagini, sensazioni, significati.
Sotto un profilo più pratico, la neotelevisione è un mezzo di sopravvivenza familiare quando non si ha molto da dirsi o si devono “parcheggiare” i bambini. Gli anziani poi trovano davanti al piccolo schermo un modo per vincere noia e solitudine. Gli adolescenti invece acquistano modelli di comportamento e di consumo, visioni del corpo e della sessualità. In definitiva: famiglia e televisione si sostengono a vicenda nel loro lavoro di riproduzione della società.
Di questa inedita alleanza approfitta Berlusconi presentandosi agli italiani ormai orfani di idee e di ideologie come il loro tutore. Un tutore assai originale però. Un tutore estremamente permissivo. La famiglia particolarista ottiene dal Berlusconi imprenditore intrattenimento non-stop e dal Berlusconi uomo politico la possibilità di continuare a pensare solo al proprio tornaconto.
Con la sua azione politica Berlusconi dice a un popolo senza più genitori di non pagare le tasse più di tanto, di ostentare la ricchezza, di pensare prima di tutto a se stessi. Un populista come Reagan, per diversi aspetti simile al Cavaliere, non si sarebbe mai sognato di veicolare questo tipo di messaggi perché sarebbe andato contro la storia civica del proprio Paese. Berlusconi invece fa leva con tutte le sue forze proprio sui difetti della società italiana trasformandoli in virtù. Con il Cavaliere a capo del governo e con le sue Tv alla guida della cultura di massa il familismo particolarista conquista nuovi spazi. Il primo terreno di aggressione è l’etica politica. Condoni, leggi ad personam, conflitto di interessi, premi di fedeltà ai propri sodali, attacco a testa bassa contro la magistratura trovano agguerriti sostenitori tra i moderati e nei dibattiti televisivi tanto da farne agli occhi di vasti settori dell’opinione pubblica un modello che si giustifica per il solo fatto di realizzarsi. In questa circostanza la dittatura virtuale esprime tutta la sua forza. Il secondo fronte di attacco sono i legami sociali. Arricchimento personale, mitologia dell’imprenditore di se stesso, declino del senso del noi, trionfo di un narcisismo voyeuristico che fa di veline e calciatori punti di riferimento dell’immaginario collettivo sono tutti fattori che minano la coesione di un Paese storicamente fragile dal punto di vista identitario.
La combinazione tra declino dell’etica politica e indebolimento dei legami sociali ha dato modo al berlusconismo di sopravvivere alle sconfitte elettorali di Berlusconi affermandosi come un’ideologia. L’antipolitica del Cavaliere non si esaurisce nell’outsider che si presenta all’elettorato autocandidandosi direttamente come premier. Non si esaurisce nell’ostilità verso l’iperpolitica dei partiti storici e un linguaggio da opposizione permanente anche quando è al governo. L’antipolitica di Berlusconi è una concezione del mondo che non ha la grandezza del nazionalismo di De Gaulle o la potenza di una retorica della superiorità morale statunitense come in Reagan. Il linguaggio di Berlusconi è quello della Tv commerciale. Più in là non è ancora andato. Esattamente come la pubblicità Berlusconi parla alle famiglie in quanto piccoli gruppi solitari, chiusi nei salotti dei loro appartamenti davanti alla Tv. Esattamente come la pubblicità il linguaggio di Berlusconi è verosimile ma non vero, promette quello che non può obiettivamente mantenere, seduce più che convincere razionalmente. Ecco perché Berlusconi lascia spesso stupefatti per le palesi menzogne che propina a intervistatori ed elettori (ad esempio che i media sono contro di lui, che gli italiani stanno economicamente bene o che mai sotto il suo Governo potrebbero passare leggi favorevoli alle sue aziende).
Anche se l’antipolitica in salsa berlusconiana manca di progetto, di strategia, di un’idea forte dell’interesse nazionale, non si può accusare chi crede realmente nelle proprie menzogne di essere un bugiardo. Tutti sanno che la pubblicità mente. Ma tutti (o quasi) ne sono conquistati. A partire dal boom dei consumi negli anni ’60 la pubblicità ha cambiato la struttura del sentire degli italiani. In un’epoca in cui è tramontata l’ideologia del progresso e non si può promettere né benessere generalizzato, né piena occupazione Berlusconi offre una seconda giovinezza al linguaggio della politica trasferendovi le tecniche della pubblicità.
Il popolo va osservato con lo stesso sguardo con cui il marketing prevede, orienta e misura i consumi delle famiglie: che acquistino lavatrici o le ragioni dell’uomo di Arcore non fa differenza. A uscirne a pezzi è lo stesso popolo in quanto entità civica, è la società in quanto reti di relazioni, è la politica in quanto progetto.
Forza della società, debolezza della politica
“La società non esiste” ebbe a dire una volta Margaret Thatcher. Per l’ultralibersita inglese esistevano solo gli individui. A quanto ci risulta Berlusconi non ha mai fatto un’affermazione simile. Ma tutto il suo agire va in questa direzione. Siccome è a capo del più votato partito italiano e orienta la produzione culturale di massa la guerra contro il suo potere simbolico sembrerebbe perduta. In realtà non è così. Settori della scuola pubblica, parte della Chiesa cattolica e di altre confessioni, numerosi attori del mondo dell’associazionismo, il movimento contro la globalizzazione neoliberista hanno resistito allo sfilacciamento dei legami sociali prodotto dal berlusconismo. Il familismo particolarista sotto tutela del Cavaliere ha il suo antidoto in istituzioni e corpi intermedi che veicolano, seppure con profonde differenze e finalità talvolta opposte, i valori della solidarietà, della cooperazione, del civismo, dell’impegno politico, dell’anticonsumismo.
Mentre la società riesce in parte a resistere al berlusconismo la politica intesa come comunità di professionisti è travolta. Il berlusconismo sovrappone lo spazio mediatico a quello politico: chi tiene la scena sul piccolo schermo conquista il potere, per meglio dire: conquista il cuore delle famiglie e da lì i loro voto, i loro soldi, il loro tempo... la loro vita insomma. In questa modalità di appropriazione biopolitica dell’esistenza il berlusconismo impone soprattutto un linguaggio: fuori il dibattito su concetti, idee, valori e porte spalancate alla contrapposizione frontale, all’arte dell’inganno, alla demonizzazione dell’avversario. Torna il codice della pubblicità: il mio prodotto è il migliore, compratemi e proverete il più grande dei piaceri, provatemi e sarete come io sono: ricco, forte, potente, sempre giovane, sempre primo, sempre in prima pagina. L’immagine prevale sulla parola, sulla scrittura, sul concetto. Il grande comunicatore è prima di ogni altra cosa un grande seduttore. E in questo senso
Berlusconi è la pubblicità fatta persona e il berlusconismo la realtà riprodotta sotto forma di spot.
Forte del vantaggio di riuscire a far giungere i propri messaggi con più rapidità ed efficacia di tutti gli altri attori politici, nel confronto con i suoi avversari la strategia di Berlusconi consiste essenzialmente in due azioni: tenere sempre alto il livello dello scontro; dettare l’agenda degli eventi di cui i media informano e discutono. Con la prima azione la politica del centrodestra si è trasformata in una guerra permanente sia che si trovi in maggioranza, sia che si trovi all’opposizione. Con la seconda, Berlusconi tiene sempre il banco e si presenta al pubblico televisivo come l’uomo della novità, del cambiamento, della rottura degli schemi: il Cavaliere ha sistematicamente un nuovo prodotto da vendere: l’abolizione dell’Ici come l’esibizione della bandana; la vittoria del Milan come l’editto di Sofia; l’insulto agli avversari politici come agli elettori del
centrosinistra; le grandi opere come i litigi con la moglie; lo sdoganamento dell’MSI come la chiusura della Casa delle Libertà. Questo deflagrare del discorso politico in narrazione di un marchio, il marchio Berlusconi, raggiunge diversi obiettivi: rafforza l’identificazione dell’elettore con i valori della cultura di massa prodotti dalle Tv commerciali; allontana le persone dalla presa di coscienza delle cause reali dei propri problemi; impedisce di affrontare l’anomalia di un leader politico allo stesso tempo proprietario di un impero mediatico. Conclusione: categorie sociali che non hanno alcun interesse per votare a destra danno il loro consenso a Berlusconi. Votano cioè per il personaggio da cui la famiglia particolarista si sente maggiormente tutelata.
Votano per chi si è presentato sin dall’inizio con la veste del tutore: non il padre della patria alla De Gaulle, non il reazionario restauratore dei valori originari americani alla Reagan, ma il protettore di una famiglia chiusa nel suo egoismo, nel suo interesse, nel suo particolare… e al diavolo il resto. Il volto meno nobile dell’identità italiana ha trovato nella sorridente maschera di Berlusconi la sua più efficace rappresentazione.
L’avversario con cui la società italiana si è dovuta confrontare dai primi anni ’90 ad oggi è il fondamentalismo liberista o neoliberista che dir si voglia. Ossia l’idea che il mercato costituisca il regolatore della società. Ovviamente nessun capitalista con un po’ di sale in zucca crede in questa favola. Non lo ammetterà mai pubblicamente, ma per sua esperienza sa bene che lo scambio non è libero e che le cosiddette “leggi dell’economia” sono sottoposte a pressioni esterne di ogni tipo: in primis, l’uso della forza, dell’inganno della corruzione.
L’importante però è che l’ideologia del mercato sia trasformata in senso comune perché permette l’accettazione del darwinismo sociale che permea lo stile di vita statunitense. L’ubriacatura privatizzatrice dei governi Berlusconi ha avuto questo obiettivo, senza raggiungerlo appieno come abbiamo visto.
Tuttavia una serie di successi intermedi gli vanno senz’altro assegnati. Ad esempio la spallata finale al partito di massa della tradizione novecentesca e la sua sostituzione con il nuovo modello realizzato dal partito-azienda.
Ma che cosa è andato esattamente perduto con l’eclissi dei partiti di massa?
Sicuramente una serie di pratiche sociali e di valori che hanno fatto della società italiana non una sommatoria di individui isolati tenuti insieme dalla
necessità ma una comunità nazionale. Prima di degenerare nella partitocrazia i partiti di massa hanno svolto un ruolo decisivo nei processi di coesione sociale del Paese. Non solo: hanno garantito l’esercizio della democrazia parlamentare, funzionato come strumenti per la selezione della classe politica, alimentato la partecipazione civile, reso protagoniste attive masse enormi di persone, educato i cittadini ad esprimere la loro volontà e a confrontarsi con altri. Con l’eclissi dei partiti di massa questa cultura politica emigra in una certa misura nella società. Ma perde di forza perché solo il partito in quanto tale garantisce: a) un rapporto stabile tra sovranità popolare e istituzione rappresentative; b) il diritto dei cittadini a partecipare alla vita sociale. Il partito-azienda di Berlusconi non è interessato a queste funzioni essendo fondato sull’antipolitica e il populismo. Non è interessato al partito come pratica collettiva da cui far emergere la volontà generale. In Forza Italia quella che importa è la volontà del capo. Mutatis mutandis si realizza anche in Italia ciò che è già avvenuto da lungo tempo negli USA: i partiti di fatto non esistono, non hanno radicamento sul territorio, in vista delle elezioni si costituiscono in comitati cerca voti per poi scomparire dopo il voto e le decisioni sono prese negli esclusivi salotti delle élite. Che a votare poi vada meno della metà degli aventi diritto è un dettaglio trascurabile. In Italia non si è arrivati ad una tale disaffezione ma da anni siamo su questa strada. Ossia sulla strada che dalla democrazia rappresentativa ci sta conducendo alla democrazia plebiscitaria: direzione opposta a quella pensata dalla nostra Costituzione. Per chiudere: con la fine dei partiti di massa ciò che stiamo perdendo sono gradi e livelli di sovranità popolare. Con questo non li si vuole certo idealizzare. Perché come abbiamo più volte osservato i partiti di massa sono stati fagocitati dalla partitocrazia (costituita come noto da una serie di elementi interagenti: notabili di vecchio e nuovo tipo, clientelismo, gruppi di pressione, rapporti malsani tra impresa e politica ecc. ecc.). Tuttavia, mai come forse in questo caso insieme all’acqua sporca si è gettato via anche il bambino.
Proliferazione dell’antipolitica
La messa in scena del berlusconismo come piattaforma politica e come fenomeno culturale ha goduto e continua a godere di grande popolarità. In tal senso una realtà periferica come Civitavecchia permette forse più che altrove di osservare quasi in vitro l’ascesa della politica-spettacolo, del populismo, della telecrazia. Va ricordato però come a Civitavecchia questa velenosa miscela produca i suoi effetti più tardi rispetto ad altre città. Ad esempio l’avventura di Giancarlo Cito a Taranto. Vediamola per un attimo. Cito è un ex missino proprietario dell’emittente televisiva Antenna Taranto 6 e il fondatore della lista AT6-Lega d'Azione Meridionale. Nel ’93 riesce a diventare Sindaco di Taranto. La parabola di Cito si esaurisce nel giro di un mandato, lui stesso finisce per quattro anni in carcere, ma risorge alle amministrative del 2007 riportando la Lega d'Azione Meridionale ad essere il partito di maggioranza relativa della città (15,42%). Un successo che tuttavia non gli basta per andare al ballottaggio. La meridionalizzazione della politica civitavecchiese giunge dunque con una decina d’anni di ritardo rispetto a Taranto. Ma giunge.
La recente affermazione di Moscherini alle elezioni amministrative del maggio 2007 avviene nel momento in cui la crisi del locale sistema dei partiti ha toccato il suo apice. Due giunte comunali cadute prematuramente, i relativi commissariamenti della città, le laceranti guerre intestine nei partiti del centrosinistra e del centrodestra hanno spianato la strada all’uomo di Molo Vespucci così come a suo tempo il dissolvimento del pentapartito e lo scandalo di Tangentopoli spianarono la strada all’uomo di Arcore. Moscherini e Berlusconi si presentano sulla scena politica come leader capaci di risolvere problemi concreti uscendo dai bizantinismi e dall’inconcludenza dei partiti. Entrambi dicono basta al voto di appartenenza e inaugurano le stagioni del voto di opinione.
Populismo puro come si vede giacché per raggiungere il potere sia Moscherini che Berlusconi non possono fare a meno dei partiti e di personaggi politici del passato. Populismo che tuttavia sfonda elettoralmente anche grazie alla complicità pressoché totale dei mezzi di comunicazione di massa. Tuttavia Moscherini è un berlusconiano senza Berlusconi. Non fa parte di Forza Italia, non è iscritto ad alcun partito, organizza per le elezioni amministrative una sua lista che si piazza prima nello schieramento del centrodestra (17,9% contro il 9,8% di Forza Italia che si colloca il secondo posto). E’ evidente nei civitavecchiesi una gran voglia di leadeship. E Moscherini è apparso ai più l’uomo giusto al momento giusto così come lo fu Berlusconi nel 1994 e nel 2001.
Come Berlusconi anche Moscherini è un uomo economicamente ricco, ideologicamente liberale, politicamente moderato, caratterialmente decisionista. Peculiarità che ne fanno la controfigura perfetta del presidente di Forza Italia. Ma c’è un però. Quando l’antipolitica sfugge di mano ai suoi creatori l’incertezza prevale. In altre parole: Forza Italia si allea con Moscherini per le amministrative del 2007 ma allo stesso tempo colui che da lì a breve diventerà Sindaco di Civitavecchia costituisce anche per il centrodestra una preoccupante deriva dell’antipolitica. Presentarsi come un outsider anche se non lo si è, autocandidarsi alla carica di primo cittadino, trasferire sic et simpliciter modalità aziendaliste nella gestione della cosa pubblica, far leva sul superamento delle ideologie sono tutte mosse che hanno permesso a Moscherini di sottrarre alla locale Forza Italia gran parte della sua potenza retorica. Insomma, seppure in piccolo il berlusconismo si ribella al suo padre fondatore. Certo, non per fare la rivoluzione. Dove sta allora il problema? Il problema sta nel fatto che Moscherini gioca da solo, gioca per sé e non per Forza Italia.
Per comprendere meglio il fenomeno Moscherini è necessario approfondire la nozione di carisma. Il primo volto del carisma di Moscherini è sicuramente berlusconiano e lo abbiamo visto. Il secondo è localistico. E per decifrarlo dobbiamo ricorrere ad una analogia. Quella con Giorgio Guazzaloca, primo Sindaco di Bologna a capo di una coalizione di centrodestra dal 1999 al 2004. Come noto Guazzaloca si candida per un secondo mandato ma è sconfitto da
Sergio Cofferati. La politica insomma torna a vincere sull’antipolitica. E in maniera antipolitica Guazzaloca si presenta agli elettori bolognesi. Esattamente come farà Moscherini a Civitavecchia. Ma andiamo con ordine.
Innanzitutto il contesto. Bologna è una città in crisi. Soffocata dal traffico, con evidenti segni di degrado urbano e alle prese con problemi di sicurezza non è più la città-vetrina vanto del modello emiliano. I bolognesi sono insomma fortemente delusi dalle ultime amministrazioni e chiedono un cambiamento di rotta che l’onnipotente sinistra non sembra in grado di offrire. Mutatis mutandis, anche la Civitavecchia del 2007 è una città in crisi con i propri amministratori e soffre di annosi problemi che nessuno è stato in grado di affrontare e risolvere, in primis la disoccupazione e il rapporto con le servitù energetiche. A questa insofferenza della società va aggiunto che in entrambe le città la sinistra è dilaniata da laceranti lotte intestine per il potere, le poltrone, la visibilità dei singoli esponenti.
Stabilito un contesto sociale e territoriale differente ma unificato dal concetto di crisi ecco apparire gli uomini della salvezza. Guazzaloca a Bologna e Moscherini a Civitavecchia. Il loro agire è straordinariamente simile e si muove all’insegna dell’antipolitica. Guazzaloca debutta con un appello al sistema politico cittadino “a 360 gradi”. Lo stesso farà Moscherini. Ed entrambi finiranno però per allearsi con il centrodestra. Sia l’uno che l’altro sono comunque personaggi estremamente noti in città: Guazzaloca perché presidente della locale e potentissima associazione dei commercianti (Ascom), Moscherini in quanto presidente dell’altrettanto potentissima Autorità Portuale.
In campagna elettorale i due candidati utilizzano la medesima strategia comunicativa: riposizionare sul campo politico l’immagine positiva già conquistata in campo economico. I due insomma si presentano all’elettorato come outsider. Outsider però in grado di raddrizzare la situazione grazie alla loro capacità decisionale ormai smarrita da partiti abituati a continui compromessi. La formula funziona e verranno eletti all’insegna del cambiamento.
Altre analogie tra i due candidati alla prima poltrona di cittadino. Entrambi si autocandidano saltando a piè pari qualsiasi mediazione. Vendono innanzitutto la loro credibilità pre-politica. Poi si rivolgono direttamente ai cittadini legittimandosi come candidati della società civile (anziché come espressione di poteri consolidati in città) e costruendo un rapporto di fiducia diretta con gli elettori. I mass-media in questo senso avranno sia Bologna che a Civitavecchia un ruolo decisivo per il successo del centrodestra. Infine, la personalizzazione della politica, incentivata dall’elezione diretta del Sindaco, raggiungerà il suo culmine in entrambi i casi. Allo scopo sia Guazzaloca che Moscherini prenderanno le distanze dalle tradizionali distinzioni politiche presentandosi come uomini al servizio della città.
Sia a Bologna che a Civitavecchia la strategia dell’antipolitica ha funzionato eleggendo personaggi in guerra con i partiti tradizionali. Tuttavia, alla prova dei fatti l’amministrazione Guazzaloca ha fortemente scontentato i bolognesi.
Che infatti non l’hanno confermata preferendo tornare a misurarsi con i pregi e i difetti della politica di cui i patiti sono espressione secondo il dettato costituzionale. Checché ne dicano i numerosi commentatori di centrodestra la vittoria di Moscherini a Civitavecchia non è stata né bulgara né travolgente. Anzi, al di sotto delle aspettative viste le spese faraoniche per la campagna elettorale del centrodestra e la cooptazione nell’alleanza di elementi provenienti dalla sinistra. Anche in questo caso i cittadini sono tornati a riappropriarsi dei valori della politica e hanno limitato i danni derivanti dall’irruzione sulla scena politica locale di un uomo forte. E poi nei suoi primi sei mesi di vita l’amministrazione Moscherini non ha certo brillato, anzi ha segnalato forti malumori all’interno della maggioranza. E’ ovvio che dare oggi un giudizio è prematuro. Tuttavia non è stato un bell’avvio quello della Giunta Moscherini. In ogni caso, quel che è certo è che nelle democrazie mature il carisma del decisionista costituisce più un rischio che una soluzione.
Bibliografia essenziale
Edward C.Banfield, Le basi morali di una società arretrata, il Mulino, Bologna, 1976.
Silvio Berlusconi, La forza di un sogno, Mondadori, Milano, 2004.
Donatella Campus, L’antipolitica al governo. De Gaulle, Reagan, Berlusconi, il Mulino,
2006.
Noam Chomsky, Il potere dei media, Vellecchi, Firenze, 1994.
Francesco Dragosei, Lo squalo e il grattacielo. Miti e fantasmi dell’immaginario
americano, il Mulino, Bologna, 2002.
Giuseppe Fiori, Il venditore. Storia di Silvio Berlusconi e della Fininvest, Garzanti,
Milano, 1995.
Michel Foucault, Microfisica del potere. Interventi politici, Einaudi, Torino, 1977.
Michel Foucault, Biopolitica e liberalismo, Edizioni Medusa, Milano, 2001.
Paul Ginsborg, Berlusconi. Ambizioni patrimoniali in una democrazia mediatica,
Einaudi, Torino, 2003.
Paul Ginsborg, La Democrazia che non c'è, Einaudi, Torino, 2006.
Peter Gomez, Marco Travaglio, Inciucio. Come la sinistra ha salvato Berlusconi. La
grande abbuffata Rai e le nuove censure di regime, da Molière al caso Celentano.
L'attacco all'Unità e l'assalto al Corriere, Rizzoli, Milano, 2005.
Roberto Grandi, Come vincere/perdere le elezioni, Lupetti, Milano, 1999.
Antonio Marziale, L’Onnipotenza dei Media: Sua maestà la TV, Rubbettino, Soveria
Mannelli, 2006.
Valerio Monteventi, Rudi Ghedini, Guazzaloca 50,69%. Perhè Bologna ha perso la
sinistra, Luca Sossella Editore, 1999.
Ricciardi C., Vellucci S., Miti americani oggi, Diabasis, Reggio Emilia, 2006.
Giuseppe Ricci, La teledittatura, Il berlusconismo: neo-civilizzazione sociale e
consenso politico, Kaos edizioni, Milano, 2003.
Alexander Stille, Citizen Berlusconi. Vita e opere, Garzanti, Milano, 2006.
Elio Veltri, Marco Travaglio, L'odore dei soldi. Origini e misteri delle fortune di Silvio
Berlusconi, Editori Riuniti, Roma, 2001.
Gore Vidal, La fine della libertà. Verso un nuovo totalitarismo?, Fazi Editore, Roma,
2001.
Gore Vidal, Democrazia tradita, Discorso sullo stato dell’Unione 2004 e altri saggi, Fazi
Editore, Roma, 2004.
Michael Walzer, Che cosa significa essere americani, Marsilio, Venezia, 1992.
Max Weber, Economia e società, Comunità, Milano, 1980.
Max Weber, Il metodo delle scienze storico-sociali, Mondadori, Milano, 1974.